“Mi piacerebbe che la pittura facesse sentire le persone meno sole e più comprese”: arte intesa come terapia, un linguaggio così potente da poter rasserenare i moti dell’animo. Matteo Trentin, studente al secondo anno presso l’Accademia di Belle Arti di Verona, sente il senso di solitudine delle persone che ritrae, ne capisce l’accettazione stoica e la lotta interiore.
Qualcosa di effimero, nostalgico e sospeso inonda le figure rappresentate dal giovane artista. I ritratti sono il riflesso dell’esistenza, intrappolata nell’inarrestabile scorrere del tempo. Passato, presente, futuro: la battaglia quotidiana dell’uomo. Nel suo autoritratto “Dejavù” l’artista guarda verso l’avvenire, barcollando tra il coraggio di abbandonare i ricordi e l’accettazione di chi è ora.

“Dejavù”
Nell’infinito trasformarsi delle cose, l’essenza dell’essere umano rimane inafferrabile e così anche queste figure. In “Water arum edge” il corpo si palesa come fosse un’epifania e, tra colori sfumati e trasparenze, si confonde con lo sfondo “sporco”, che simboleggia lo spazio psicologico dell’uomo.
“Water arum edge”
“Shadow”, composto da colori poco saturi, linee di contorno sbiadite e da poche tinte ci fa credere di essere di fronte ad una vecchia fotografia in bianco e nero: lontana, distante, passata. Il tempo è un’illusione, tutto ciò che si può fare è contenerlo in uno spazio atemporale, in un “Illusion of time”.
“Shadow”
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